venerdì 4 dicembre 2015

La LUCE e l'OMBRA


Michelangelo Merisi da Caravaggio, La vocazione di San Matteo, particolare,1599-1600


Non fare della tua mente un campo di battaglia,
non dichiarare guerra.

Tutto ciò che provi (gioia, dolore, ira, odio) è parte di te.
L’opposizione tra buono e cattivo è spesso raffigurata con la lotta tra luce e tenebre,
ma se guardiamo in modo diverso,
vedremo che anche quando la luce splende

le tenebre non scompaiono.
Invece di venire cacciate, si fondono con la luce.
Diventano luce..
-Thìch Nhat Hanh-



Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta e Oloferne, particolare, 1599

"Ognuno di noi è seguito da un'ombra e meno questa è integrata nella vita conscia dell'individuo, tanto più è nera e densa.  (...) Se le tendenze dell'ombra, che vengono rimosse, non rappresentassero altro che il male, non esisterebbe alcun problema. Ma l'ombra, rappresenta solo qualcosa di inferiore, di primitivo, inadatto e goffo e non è male in senso assoluto. Essa comprende fra l'altro delle qualità inferiori, infantili e primitive, che in un certo senso renderebbero l'esistenza umana più vivace e bella; ma urtano contro regole consacrate dalla tradizione".

da Psicologia e Religione (1938-1940) C.G,Jung

                                                                                               

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Davide con la testa di Golia, particolare, 1609-1610

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Maria Maddalena in estasi, particolare, 1606






Siamo in grado di riconoscere gli aspetti che non amiamo di noi stessi? 




mercoledì 18 novembre 2015

PRATICARE DALL'INTERNO ALL'ESTERNO



Sarebbe una gran cosa provare a praticare la pace invece di predicarla.
Ognuno nel suo piccolo raggio d'azione. A partire dal proprio interno, che è il luogo dove originano i conflitti. A seguire con le persone a noi vicino e con quelle con le quali entriamo in contatto.

In alcuni momenti difficili, davanti ad eventi drammatici di grande portata, quando avverto l'impotenza della mia esiguità, mi sovviene alla mente una frase del Dalai Lama che amo molto:

Se pensi di essere troppo piccolo per fare la differenza, prova a dormire con una zanzara.

Aggiungo questo video "illuminante":

L'uomo ha bisogno per prima cosa di conoscere se stesso.
-- C.G. Jung




mercoledì 28 ottobre 2015

NIDI D'AFFETTO, BASI SICURE

Alice Vacondio, Nidi d'affetto, 2014

Quando, in una delle mie ricerche e peregrinazioni in rete, mi sono imbattuta nelle fotografie di questa ragazza poco più che diciottenne, sono rimasta folgorata dalla loro potenza simbolica e comunicativa, oltre che dalla loro poesia. 
La delicatezza e la semplicità (ben lontana dalla banalità) di queste immagini sono espressione di contenuti profondi che lasciano sorgere innumerevoli riflessioni, confermando come semplicità e complessità siano da sempre intrinsecamente connesse e sottolineando, ancora una volta, come le immagini possano veicolare contenuti che richiederebbero l'ausilio di innumerevoli parole.

L'autrice, Alice Vacondio, studentessa del liceo artistico Chierici di Reggio Emilia, è la vincitrice, con il suo progetto "Nidi d'affetto", del Premio per la fotografia Davide Vignali 2015, il concorso fotografico e video aperto agli studenti del quinto anno delle scuole superiori dell'Emilia-Romagna, promosso da fondazione Fotografia e Istituto d'Arte Venturi di Modena, in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
Concorso ideato dai genitori del ragazzo al quale è intitolato, dagli insegnanti e dai compagni dell'Istituto d'Arte Venturi che intendono così ricordarlo, data la sua prematura scomparsa.

 Dal blog di Alice cito:

"NIDO, la parola nido principalmente è una parola semplice , di solo due
sillabe , di piccola lunghezza , sembrerebbe quasi una parola
insignificante , ma a volte senza che la gente se ne accorga sono
proprio queste parole a dare spessore alla nostra vita. ..."


Alice Vacondio, Nidi d'affetto, 2014

Aggiungo due citazioni per me molto calzanti in proposito:

“In realtà alla resa dei conti, non esiste sforzo più valido e meritevole di quello orientato a prevenire e a ridurre la sofferenza umana. Cambiamenti sociali ed economici a parte, il sistema migliore di conseguire l’obiettivo non è forse quello di offrire ai bambini un’infanzia serena? e come si può essere sicuri di realizzarlo se non dando loro comprensione e sicurezza, famiglie libere da tensioni, con possibilità di crescere e di dispiegare a pieno le proprie capacità?...(...)

L'ambizione fondamentale dell'uomo contemporaneo è quella di essere ragionevolmente felice e di avere la capacità e la propensione a creare un clima favorevole per se stesso e per gli altri.
In questo senso la famiglia svolge un ruolo preminente.”


-- Samuel R.Slavson,1958


Alice Vacondio, Nidi d'affetto, 2014


La caratteristica più importante dell’essere genitori? Fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare a dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario. 

-- John Bowlby – Una base sicura, 1988


Referenze:





mercoledì 14 ottobre 2015

ALLENTARE LA PRESA, LASCIARE ANDARE, LASCIAR CADERE...


“GARDENS”,  exhibition of Shinichi Maruyama  showed at Bruce Silverstein Gallery (www.brucesilverstein.com)

Nel libro Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, romanzo geniale di Robert M. Pirsig che racconta di un viaggio reale e metaforico dell'autore con suo figlio, viene citata la pratica della vecchia trappola indiana per scimmie.
Essa "consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato con una catena. La noce di cocco contiene del riso che si può prendere infilando la mano in un buco. L'apertura è grande quanto basta perché entri la mano della scimmia, ma è troppo piccola perché ne esca il suo pugno pieno di riso. La scimmia infila la mano e si ritrova intrappolata - esclusivamente a causa della rigidità dei suoi valori. Non riesce a cambiare il valore del riso. Non riesce a vedere che la libertà senza riso vale più della cattura con".
Proprio non le riesce di comprendere che ciò che fino a quel momento le è stato utile, il riso, ora le sarà fatale: il cacciatore potrà catturarla senza alcuna fatica e sarà la fine.

Ma se per una scimmia non è possibile comprendere questo, lo è per un essere umano.
E' possibile, se lo vuole (davvero, nel suo profondo), rinunciare all'abitudine mentale, al comportamento standardizzato, in favore di un comportamento che tenga conto di variabili importanti, come la cattura a causa del riso.

Shiniki Maruyama in "Kusho"

Certo, è faticoso. Emotivamente impegnativo. Doloroso.
A volte richiede anche il coraggio di chiedere un aiuto esterno,
 un sostegno.

Giungere ad allentare la presa.
Lasciar cadere. 
Lasciar andare.
Il nostro riso.

Water sculpture by Shiniki Maruyama

Il nostro riso: 
  • preoccupazioni
  • vecchi risentimenti 
  • antiche ferite
  • convinzioni cristallizzate
  • sensi di colpa
  • opinioni 
  • aspettative 
  • situazioni
  • persone
  • dipendenze 
  • limitazioni
Ci aggrappiamo disperatamente a qualcosa/qualcuno che diventa invece fonte di dolore, di blocco evolutivo, di impedimento al vivere con pienezza e con serenità.
Perché molto spesso ci viene più spontaneo attribuire a cause esterne, come la "trappola", la causa del nostro dolore, piuttosto che riconoscere che la vera origine della nostra sofferenza risiede in noi, nella nostra scelta di non mollare il riso.
Scegliamo di non lasciarlo andare. Tenacemente. E soffriamo.

Pensiamo che potremmo perdere qualcosa.
Dimenticando che lasciando andare potremmo liberare le nostre mani per accogliere qualcos'altro. 
Qualcosa di nuovo.
Ma il nuovo spaventa. Anche se può essere buono. Perché è il "non conosciuto".
Spaventa così tanto da tenerci ancorati al vecchio, pur se doloroso.


Ci vuole una gran forza a lasciar cadere.
E' la stessa forza che richiede l'accettazione. Il non opporsi.
E lasciar cadere nell'accettazione della realtà definisce la differenza tra l'esser vittime e l'essere consapevolmente attivi nella scelta di continuare a vivere.

Lasciar cadere è un atto di fiducia nei confronti di noi stessi e della nostra esistenza.




L'accettazione è il primo passo per superare una delusione. Il dolore nasce sempre dal desiderio che le cose siano diverse da come sono.

                                                                                       Swami Kriyananda
    

Lasciate cadere ciò che vuole cadere; se lo trattenete vi trascinerà con sé.

                                                                       C.G. Jung, Liber Novus, Il libro rosso, pag. 245





Le immagini sono dell'artista giapponese, trapiantato a New York, Shiniki Maruyama.
Egli fa della fotografia un'arte quasi pittorica immortalando getti di colore o di liquidi.
Nello specifico di "Kusho", una collezione di 23 scatti, egli fissa fotograficamente l'attimo immediatamente precedente in cui getti d'acqua e inchiostro nero si mescolano in soluzioni impreviste e inaspettate, dando luogo a danze liquide che neppure l'artista può immaginare in anticipo.

Qui un suo video:
Qui, sul suo sito le sue sculture d'acqua:

giovedì 10 settembre 2015

Prospettive e trasformazioni


L'arteterapia non è tanto "l'arte" dell'interpretazione, ma piuttosto "l'arte" dell'espressione dei contenuti emotivi e della loro osservazione e comprensione.

Portare questi contenuti fuori di sé, dare loro forma in uno spazio definito che accoglie e contiene, per poterli osservare.
Prendere un po' di distanza per cogliere aspetti, sentimenti, emozioni e vissuto nella loro globalità. Riavvicinarsi per approfondire ciò che serve. per meglio comprendere, e prenderne coscienza. 

Poi ri-allontanarsi e vedere da un'altra angolazione, da un'altra prospettiva.
Guidati e sostenuti dall'arteterapeuta che è "occhio" esterno, che è altro punto di vista, appunto.


Cambiare materiale artistico, ruotare l'elaborato artistico, rielaborarlo, per rendersi conto che cambia l'approccio alla rappresentazione e alla relazione con l'oggetto rappresentato.
Osservare insieme per confrontarsi.

La percezione cambia.

Ecco che succede qualcosa: -- A questo non avevo pensato...-- oppure: -- Beh, stando così le cose...-- e: -- Sì, vista la situazione da questa prospettiva...--.

E' l'apertura. L'apertura alla riflessione, al ribaltamento della prospettiva.
La riconsiderazione degli eventi, la loro messa in discussione, la loro ricollocazione, l'attribuzione di senso, di significato.

Una nuova percezione. Un'emozione. Un nuovo pensiero.
A partire da qui può aver luogo una trasformazione.



Percepire un aspetto nuovo di sé stessi è il primo passo verso il cambiamento del concetto di sé. 
Carl Rogers, Un modo di essere, 1980 

...disporsi attivamente nei confronti della realtà esterna anziché subirne l'assedio, favorisce una condizione potenziale di trasformazione della personalità, implica un'apertura verso ciò che eccede i confini dell'ordinario, del prevedibile. Aldo Carotenuto, Il fondamento della personalità, 2000

mercoledì 2 settembre 2015

SILENZIO, ASSENZA, SCOPERTE
Photo: Monica Denevan






Buonasera.
Torno a scrivere sul blog dopo settimane di assenza e di silenzio.


Settimane di vacanza.
Vacanza: dal lat. vacantia "essere libero", part. pres. di vacare "esser vuoto".

Interruzione delle abitudini, scioglimento dagli impegni e svuotamento di quella pienezza di incontri, suoni, immagini, cose, appuntamenti quotidiani che contraddistingue la nostra moderna esistenza.

Fermarsi diventa necessario, vivificante, catartico.

Fermarsi in silenzio per poter ascoltare.
Coltivare un silenzio che predispone all'ascolto, che consente, come quando eravamo scolari, di prendere appunti e poi di "ripulire" la lavagna per potervi tracciare altri segni, altre formule.

Silenzio e assenza che scandiscono ritmi nelle relazioni e che consentono di ascoltare dentro di noi ciò che gli incontri, le comunicazioni e le informazioni hanno lasciato.
Possibilità di pensare, ragionare, operare connessioni.
Possibilità generata anche dalla distanza, che crea nuove prospettive e nuovi sguardi.

E' così che possiamo scoprire del nuovo, in noi e fuori di noi.

Vi auguro un buon inizio d'autunno e un buon ritorno ai lavori, ma soprattutto vi auguro di poter salvaguardare piccoli momenti sacri tutti per voi, nel silenzio e nella quiete.
Magari con fogli e colori.


E vi lascio un invito modulato dalle parole di Tiziano Terzani.

A presto,

Roberta


"Pensa alle cose che hai dentro, alla forza, alla fantasia, al potenziale di felicità che hai ancora da scoprire solo dando al tutto l'occasione di venir fuori. Quell'occasione bisogna dargliela, perché è triste pensare alla gente che quell'occasione non se l'è mai data e alla fine se ne va credendo di non aver mai potuto essere nient'altro".

Tiziano Terzani
Lettera a Saskia, 19 agosto 1990, Daigo, Giappone

martedì 16 giugno 2015

Arte Clandestina

ADRIAN PACI  Vite in transito - 05 Ottobre 2013 - 06 Gennaio 2014

Sono dei nostri giorni, prima, le immagini strazianti dei corpi sul filo dell’acqua tra le risacche del mare di Lampedusa, corpi di persone partite con la speranza di una vita che hanno invece incontrato il suo esatto contrario,  poi, quelle dolorose dei profughi Siriani accampati sul mezzanino della Stazione Centrale di Milano,  ed ora quelle disperanti dei migranti bloccati a Mentone, al confine con la Francia.

Immagini che provocano emozioni forti, ma anche differenti: compassione, tristezza, smarrimento, paura, repulsione, rabbia, solo per citarne alcune. Spesso sono emozioni che provocano commozione della durata di una sequenza  televisiva, per poi essere respinte  indietro a forza in qualche luogo recondito e poco accessibile della nostra coscienza.
Altre volte il sentimento della solidarietà è così prepotente da spingere individui di buona volontà a dedicare tempo e risorse disponibili ai prossimi in difficoltà, cercando al contempo di attribuire un senso alle cose e agli avvenimenti.
In altri casi prevale il timore  dell’altro, del diverso, insieme al sospetto, alla diffidenza, al fastidio e, con questi, alla successiva reazione di rifiuto quando non di disprezzo, di ostilità e addirittura di violenza.

Ma , più in generale, la collettività tende  all’evitamento del confronto  di talune realtà scomode  e dolorose, delle loro cause, delle responsabilità.

Stanley Cohen, nel suo libro Stati di negazione ha indagato a fondo il modo in cui singole persone e intere comunità evitano di confrontarsi con tali realtà mettendo in atto meccanismi di diniego consapevoli o inconsapevoli nel tentativo di rimuovere il dolore, di non essere costrette ad averci a che fare.“La nozione del diniego come normale (positivo, salutare, necessario, perfino benigno ed apprezzabile) è omeostatica: il diniego ci protegge da emozioni dolorose esattamente come girare fisicamente la testa o battere gli occhi protegge la retina da una luce intensa. La nostra preconscia valutazione di pericolo di una certa situazione comporta emozioni dolorose che pilotano il nostro interesse focale verso qualcosa d’altro. Ma quanto sono adattative le nostre manovre difensive? Se il paziente migliora diciamo che il diniego è salutare, se peggiora che era patologico”.
E ancora: “Le culture del diniego incoraggiano a chiudere collettivamente gli occhi, lasciando gli orrori indiscussi o normalizzati, come parte dei ritmi di vita quotidiani”.

Zygmunt Bauman  ci costringe a fare i conti con la realtà dei fatti, a prendere coscienza della storia, del  presente e dei suoi possibili sviluppi.
"Noi viviamo in una condizione che definisco di “diasporalizzazione”: i vostri nonni, i genitori dei vostri nonni sono migrati in massa, spesso in America Latina, perché essi non potevano sopravvivere qui. Adesso questo fenomeno continua, ma in altre direzioni: questa è l’unica differenza. La migrazione è un fenomeno che ha riguardato la “modernità” dalle sue origini ed è da essa imprescindibile. Perché la modernità produce “persone inutili”. Esistono due “industrie” della modernità che producono “persone inutili”: una è quella cosi detta della “costruzione dell’ordine”, dove ogni regola e sistema vengono costantemente rimpiazzati da nuovi sistemi e regole che producono esuberi, persone eccedenti. L’altra industria che produce “persone inutili” è quell’industria che noi chiamiamo “progresso economico” che consiste, fondamentalmente, nel ridurre costantemente la forza lavoro. E questo semplicemente produce persone inutili. E queste persone andranno dove c’è pane, promesse di pane e acqua potabile".

(tratto dall'intervista di Antonio Rossano a Zygmunt Bauman "La modernità produce immigrazione" - L'Espresso - 10 ottobre 2013)


Adrian PaciSislej Xhafa, entrambi emigranti ed artisti, utilizzando invece il linguaggio dell’espressione artistica, provano a dare visibilità alle “persone inutili”, agli invisibili. E al contempo, come sempre, danno voce al loro sentire mentre scuotono il nostro.



            ADRIAN PACI Home to go (2001) (plaster, marble, dust, tiles, rope, 165 x 90 x 120 cm)
             Foto © Roberto Marossi

         



       SISLEJ XHAFA, Barka, 2011 (shoes, glue,  700 x 230 x 80 cm) Nomas Foundation, Roma
       Foto © Amedeo Benestante



lunedì 1 giugno 2015

BUONE NOTIZIE

Le buone notizie non vengono stampate.
Le buone notizie le stampiamo noi.
Ne tiriamo un’edizione speciale ogni momento
e vorremmo che la leggessi.
La buona notizia è che sei vivo
e che l’albero di tiglio è ancora lì,
e svetta saldo nel rigido inverno.
La buona notizia è che hai splendidi occhi
che toccano il blu del cielo.
La buona notizia è che
il tuo bambino è lì davanti a te,
e che tu hai due braccia disponibili.
Abbracciarsi è possibile.
Si stampa solo ciò che non va.
Guarda ognuna delle nostre edizioni speciali:
noi offriamo tutto ciò che va.
Vogliamo che tu ne tragga beneficio
e che ci aiuti a proteggerle.
Lì, sul marciapiede, un fiore di tarassaco
ci offre il suo splendido sorriso
e canta la canzone dell’eternità.
Ascolta! Hai orecchie in grado di udirla.
China il capo. Ascoltala.
Lasciati dietro il tuo mondo di dolore
e di preoccupazioni
e sii libero.
L’ultima buona notizia è che puoi farlo.

Thich Nhat Hanh


sabato 9 maggio 2015

Diversità, normalità, anormalità...

A proposito del mio pensiero in merito alla diversità e in merito alla "normalità/anormalità"
pubblico il video di un cortometraggio come esauriente metafora:






mercoledì 29 aprile 2015

Bambini liquidati con la logica degli psicofarmaci
(Il Manifesto, aprile 05)

Incontro con François Ansermet, psicoanalista e psichiatra dell'età evolutiva. Non si può incontrare la sofferenza - dice - sulla base di un pret à porter terapeutico, che esclude l'individualità e l'inatteso in ciascuno di noi. Fare fronte con un farmaco al dolore dei bambini è un modo per evitare di ascoltarli e sbarazzarsi di loro.

MASSIMO RECALCATI
La enorme diffusione degli psicofarmaci nelle cosiddette società del benessere ha ormai raggiunto un livello di guardia. Il loro uso clinico sembra sempre più sconfinare in un abuso patologico. Negli ultimi anni questo consumo compulsivo ha travolto anche i bambini, ai quali vengono troppo spesso somministrati psicofarmaci per curare l'iperattività, il deficit di attenzione, l'ansia, i fenomeni psicosomatici, i disturbi del comportamento alimentare, del sonno, dell'umore, e così via. La pedagogia repressiva di stampo disciplinare sembra dunque rinnovarsi chimicamente nel nome di un igenismo scientista che tende a ridurre i sintomi del bambino a disordini da normalizzare, anziché assumerli - così ci ha insegnato la psicoanalisi - come manifestazioni particolari del loro inconscio. Per affrontare questi problemi abbiamo incontrato François Ansermet, psicoanalista e professore di psichiatria dell'età evolutiva all'università di Losanna, il cui lavoro clinico e teorico si è sempre mosso sul confine difficile e incerto che separa e unisce psicoanalisi e medicina, nell'intento di tenere insieme creatività e rigore. Ciò che lo orienta è il principio etico secondo il quale la nostra soggettività è irriducibile a ogni forma di determinismo. Principio che resta valido anche quando l'esperienza clinica coi bambini ci pone di fronte a casi limite: il rifiuto precoce e innaturale della vita, le malformazioni costituzionali, i fenomeni psicosomatici gravi, la rianimazione neonatale, l'abbandono o l'autismo. Nemmeno l'estrema traumaticità di queste situazioni cancella mai la singolarità di ogni persona, afferma con insistenza Ansermet. La particolarità di ogni soggetto è una costante ineliminabile, il luogo, per usare le parole di Lacan, di una «insondabile decisione».

Attualmente gli psicofarmaci sono propagandati come il rimedio più adeguato per rispondere a una esigenza di utilità immediata, che orienta non solo la domanda di cura ma, più in generale, la dimensione stessa dell'esistenza e dei legami sociali contemporanei. Lei cosa ne pensa?

Una tra le costanti della mentalità contemporanea è modellata sul bisogno indotto di oggetti che si suppone possano soddisfare tutti i desideri, in modo utilitario e immediato: anche gli psicofarmaci rientrano in questa prospettiva. Ansietà, turbe del sonno, dell'umore, e altri disturbi si vuole «guarirli» in modo rapido e soprattutto senza implicare l'unicità delle persone coinvolte. Sbarazzandosi del loro sintomo ci si sbarazza, in un solo colpo, anche di loro stessi. Allo stesso modo con i bambini, fare fronte farmacologicamente alle manifestazioni della loro sofferenza significa anche, in un certa misura, liquidare la complessità delle loro persone e il dolore mentale che ci impongono. Si pensa di agire in modo concentrato sul sintomo-bersaglio, si vogliono fare sparire i disturbi che infastidiscono i genitori, la scuola, la società, come il comportamento iperattivo, il deficit d'attenzione, l'aggressività, la violenza. Si isola un disturbo, ci si mette d'accordo sulla sua definizione e poi si cerca una sostanza che sarebbe supposta agire in maniera esclusiva sul comportamento, al di là della storia del bambino, del suo funzionamento psichico e della dinamica interna alla sua famiglia. Non ci si domanda più chi è il bambino, che cosa esprime attraverso quel disturbo, non ci si interroga sulla sua disperazione o sulla sua speranza, non ci si chiede quali questioni siano trattenute in ciò che il sintomo manifesta. È così che lo psicofarmaco può escludere la personalità del soggetto in questione. Tutto ciò non significa che i farmaci non vadano mai usati: non bisogna nemmeno rischiare un atteggiamento oscurantista.

Normalizzare è, attualmente, l'obiettivo terapeutico che orienta non solo la prescrizione farmacologica ma più in generale le procedure delle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali. Foucault aveva insistito sul carattere repressivo-disciplinare di questa finalità. Cosa significa dunque normalizzare un bambino?

Non si può normalizzare un bambino. La norma è ciò che c'è di più antinomico alla particolarità individuale. Tuttavia le terapie cognitivo-comportamentali, che pretendono di fare a meno della soggettività, di ignorarne la storia, hanno come unica mira proprio la modificazione del comportamento, la sua normalizzazione, dunque una deriva «repressivo-discilplinare». Forse il fatto che oggi proprio questa prospettiva sia la più diffusa è anche la conseguenza di un declino della clinica, ovvero di quella disposizione terapeutica che fa esperienza della singolarità in quanto tale, che rovescia l'appiattimento universalizzante degli individui sul quale si fonda l'intervento cognitivo-comportamentale. Non si può incontrare l'altro sulla base di un prêt-à-porter terapeutico che rigetta l'unicità e l'inatteso, dimensioni che costituiscono ciò che è più proprio dell'essere umano. Noi tutti siamo fondamentalmente caratterizzati dal fatto di non essere comparabili, programmabili, universalizzabili...

Gli psicofarmaci sembrano allinearsi a quella stessa cultura del rimedio al dolore di esistere che ritroviamo anche nelle diverse forme di tossicomania. E più in generale, sembra rispondere alle stesse esigenze anche l'offerta maniacale di oggetti di consumo che caratterizza quello che Lacan ha chiamato il «discorso del capitalista»: ovvero, un tipo di legame sociale che pretenderebbe di escludere la dimensione della mancanza e del desiderio in nome di un consumo compulsivo di oggetti. Un consumo indotto costantemente dalla produzione di pseudomancanze, che questi oggetti avrebbero il compito di colmare...

Ha ragione. Tutto accade, nel mercato contemporaneo, come se si potesse trovare l'oggetto del proprio desiderio nell'oggetto di consumo, a condizione di porgli un prezzo. Si pensa che si possa avere tutto subito per nutrire una soddisfazione immediata. La rappresentazione che si dà degli psicofarmaci è completamente intrappolata in questa logica. Si pensa di avere a disposizione un oggetto il cui potere è quello di ridurre la propria insoddisfazione o quella dell'altro. È così che la logica del farmaco si congiunge, in un certo modo, alla logica della tossicomania: il tossicomane non troverà mai sollievo nella sostanza dalla quale dipende e che, paradossalmente, lo lascerà all'infinito in preda alla sua avidità. La psicoanalisi, al contrario, si orienta a partire dalla questione del desiderio, del suo oggetto oscuro che ella riconosce come inafferrabile, dunque come il contrario dell'oggetto di consumo. L'idea di un farmaco che verrebbe a modificare il comportamento rimanda effettivamente a ciò che Lacan chiama il «discorso del capitalista», nel quale ci si trova attaccati all'oggetto illudendosi di essere padroni di ciò che si consuma. Tutto questo avviene in un totale misconoscimento, che conduce il soggetto stesso a confondersi con l'ordine sociale nel quale s'inscrive; ordine sociale alla cui riproduzione egli partecipa senza averne la minima coscienza.

Iperattivismo, panico, anoressie, bulimie, obesità, fenomeni psicosomatici: la sensazione è che il quadro dei sintomi che affliggono il bambino occidentale diventi sempre più drammatico. È una sensazione giustificata? E se lo è qual è la sua causa?

È vero che questi disturbi assumono oggi un aspetto drammatico. Sono come delle storie senza parole che ricercano i loro spettatori, fanno appello a un intervento dell'altro; di un altro a cui ci si rivolge disperatamente perché intervenga. Il bambino si trova allora, in una certa misura, medico di se stesso, si cura attraverso il suo disturbo. Si potrebbe anche aggiungere il problema della violenza, che è un tentativo di restaurazione soggettiva, una ricerca vitale giocata all'insaputa di chi la mette in atto, il quale si ritrova lui stesso oggetto di una violenza che gli rimbalza contro sino al limite estremo del suicido. La violenza diventa così un disturbo del comportamento fissato e desoggettivato, attorno al quale tutto si cristallizza; sia per il bambino violento che per tutti coloro che lo circondano. Per uscire da questo circolo vizioso si tratta di creare le condizioni di un incontro dove sia possibile rimettere in gioco ciò che tormenta il bambino, per andare oltre il disturbo che patisce e che rappresentava, sino a quel momento, la sola soluzione che egli era riuscito a trovare per far fronte alla sua sofferenza.

Un bambino, affermava Lacan, è un sintomo o un oggetto del desiderio dell'Altro. Le sembra una affermazione ancora attuale? E come la si potrebbe spiegare?Con il fatto che tutto ciò che il bambino manifesta può in effetti essere il sintomo delle dinamiche giocate nella famiglia o nella coppia dei genitori, e cioè essere il risultato del fatto che egli si ritrova a avere a che fare con i loro fantasmi. In questo caso, più il bambino è assoggettato e meno esiste come soggetto. E questo vale anche per le strategie sociali nelle quali il bambino rimane preso quando lo si vuole educare, normalizzare, ridurlo alle coordinate iscritte in quelle che dovrebbe essere le tappe prefissate dal suo sviluppo, piuttosto che ricercare la singolarità di ciò che egli manifesta. Il bambino emerge come individuo solo liberandosi dagli effetti delle dinamiche che lo rendono oggetto di ciò che, appunto, si mette in gioco attorno a lui. È una contraddizione difficile da accettare nelle strategie educative o nei programmi terapeutici fondati su degli apriori, applicati in maniera sistematica e indistinta. Le affermazioni di Lacan che lei ricorda sono centrali per orientarsi nella clinica. Si tratta di slegare il bambino dalla presa dell'altro perché possa percorrere il suo proprio cammino.

Lei ha scritto nel suo Clinica dell'origine che un bambino «obbliga coloro che lo hanno concepito, o che lo accolgono, a confrontarsi con una dimensione inabbordabile, con qualcosa d'impensabile, d'irrappresentabile che, può persino provocare, in alcuni, un effetto traumatico». Gli psicofarmaci non sono forse un modo, per i genitori, di evitare il confronto con questo trauma?

Il bambino è sempre al di là di ciò che si vuol fare di lui, compreso quando lo si tratta con dei farmaci. È altrove da dove si pensa che lui sia. Non si lascia afferrare. Già fin dalla sua origine, che è irrappresentabile, come la morte. Il confronto con questo dato di realtà può effettivamente essere traumatico. Ma il vuoto dal quale il bambino proviene è anche l'occasione di una libertà potenziale: tocca a lui diventare l'interprete del suo proprio desiderio di esistere. Se la psicoanalisi ha una funzione non è certo quella di ricondurre il bambino ai disturbi che lo affliggono, ma piuttosto quella di aprire il campo del possibile per lasciare che il bambino possa inventare se stesso. Non si può sapere cosa sia bene per l'altro, ciascuno si inventa a suo modo, fa le sue scelte, trova le proprie risposte che non possono essere conosciute in anticipo. È così che lo psicoanalista, piuttosto che essere un corvo nero del determinismo, è innanzitutto un praticante dell'imprevedibile.
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François Ansermet 
Psicoanalista di orientamento lacaniano, vive e lavora a Losanna, dove è professore ordinario di psichiatria del bambino e dell'adolescente. Da anni si dedica allo studio delle possibili connessioni tra psicoanalisi e pediatria e, in particolare, alla medicina perinatale. Il suo ultimo libro, scritto con Pierre Magistretti, è titolato À chacun son cerveau. Plasticité neuronale et inconscient, e sta sollevando un grande dibattito tra gli specialisti. Di Ansermet il lettore italiano può trovare Clinica dell'origine. Il bambino tra medicina e psicoanalisi, Franco Angeli, 2004. 

domenica 26 aprile 2015

VIVERE CREATIVAMENTE


"È la percezione creativa, più di ogni altra cosa, che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta.
In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli vengono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento.
La compiacenza porta con sé un senso di futilità per l’individuo e si associa all’idea che niente sia importante e che la vita non valga la pena di essere vissuta. In maniera angosciante molte persone hanno avuto modo di sperimentare un vivere creativo in misura appena sufficiente per permettere loro di riconoscere che, per la maggior parte del tempo, vivono in modo non creativo, come imbrigliate nella creatività di qualcun altro o di una macchina. (...).
In qualche modo la nostra teoria comprende la convinzione che vivere creativamente sia una situazione di sanità, e che la compiacenza sia una base patologica per la vita".

-- Donald Winnicott, Gioco e Realtà, Armando Ed., cap. V, p. 119 --

Foto di Roberta Tezza - Al lavoro - 2008

giovedì 2 aprile 2015

   Felice Rinascita!




Sono tempi difficili e bui, è vero.
Ma va ricordato che la paura si trasmette. Si propaga.
E l'aggressività nasce dalla paura, e si propaga anch'essa nel nostro rispecchiarci vicendevolmente.
E' necessario filtrare ciò che riceviamo, imprimere un'altra direzione, offrire un'altra prospettiva. Restare ancorati all'impulso vitale per spezzare un circolo che si auto-alimenterebbe a livello esponenziale.
Vita invece di morte.
Speranza invece di disperazione.
Creazione invece di distruzione.
La vita è sempre più forte. Di tutto.
Auguro a tutti voi una BUONA PASQUA e una FELICE RINASCITA,
come ognuno le pensi e desideri, nel rispetto di ogni credo religioso.

A presto,
Roberta 



domenica 8 marzo 2015

8 MARZO: IL MIO AUGURIO

Le 150 donne che muovono il mondo, lista pubblicata sul Newsweek nel marzo 2011
Emma Bonino prima della seconda riga

Oggi, 8 marzo, il mio pensiero va a tutte le donne che soffrono per innumerevoli e svariati motivi in ogni parte del mondo.
Il mio augurio a tutte le donne del mondo, me compresa, è che possiamo maturare una tale e profonda consapevolezza di noi stesse e del nostro valore da diventare le più preziose alleate di noi stesse e delle nostre compagne. Auguri a tutte!

                                                                                      Roberta


Dedico qui di seguito alle donne che s'infliggono dolore, inseguendo chi non è in grado di rispettarle ed amarle, questa interessante riflessione tratta da http://periodici.repubblica.it/d/



Galimberti: “Perché Narciso non vale l’amore”

Secondo il mito, quando amiamo chi non sa amare, dobbiamo attenderci le punizioni di Eros. Nella realtà, vuol dire imparare a non credersi onnipotenti

di Maria Luisa Campobasso e Umberto Galimberti,
D Repubblica, 22 marzo 2014 


Sono una psicoterapeuta e insegno in una scuola di formazione in psicoterapia relazionale, dove le sue pagine sono un utile materiale di riflessione e di confronto per le discussioni con i miei allievi. Le scrivo a proposito del narcisismo, tema che più volte lei ha affrontato, e che secondo me oggi è di grande attualità. Vorrei interrogarmi e interrogarla circa la “relazione narcisistica”, ampliando lo sguardo sulla ninfa Eco che, nel mito, di Narciso è vittima – per intenderci – e tornare al “miracolo dell’amore” che Lei auspicava per il collega psicologo narcisista che in una lettera le sottoponeva i suoi tormenti. Nella mia esperienza clinica vedo tante donne spesso belle, intelligenti e affascinanti, che fanno a pezzi la propria vita rincorrendo questo “miracolo d’amore”. Non smetto mai di sorprendermi per la quantità di energia che sono disposte a investire in questa relazione “disperante” che, proprio nell’accanimento onnipotente a diventare “qualcuno” per il partner (per il quale sono invece solo estensione narcisistica del sé) trova la sua marca patologica. Quando pare che, ridotte ormai come Eco nel mito, si decidano a mollare, ecco che si riattiva il gioco del partner che, proprio nella conquista di donne così importanti, alimenta il senso del suo sé (il cosiddetto “amore”). Poiché poi il narcisista è un magnifico incantatore, ci riesce e tutto ricomincia, anche il dolore che si cronicizza in sofferenza. Vorrei che nelle sue pagine, che sono un riferimento per tante donne, lo scrivesse, che il miracolo dell’amore non consiste nel cambiare l’altro, semmai nella possibilità che, attraverso l’altro, ci è data di cambiare noi stessi. Per esempio facendo quanto è possibile per ritrovare in noi stessi il senso del nostro vivere, senza delegarlo al valore che l’altro è disposto a riconoscergli. Maria Luisa Campobasso

Narciso era un giovane bellissimo circondato dall’amore e dall’ammirazione di quanti lo incontravano, ma alle profferte d’amore, che pure lo gratificavano, restava indifferente. Un giorno, di Narciso si innamorò la ninfa Eco che, non ricambiata e respinta, si consumò di dolore fino a morirne. Di lei rimase solo il ritorno della sua voce, l’eco appunto. Questo è il destino che attende le donne che amano i narcisisti, spinte dalla persuasione, tutta femminile, di poter cambiare col tempo e con le loro premure gli uomini che amano. Questa convinzione, che penso abbia le sue radici nello sfondo di onnipotenza presente in ogni donna – forse derivato dal fatto che, in quanto generatrice, la donna ha il potere di vita e di morte – è tipico non solo di colei che ama i narcisisti, sopportando ogni sorta di frustrazione e delusione, ma anche di chi ama i violenti, subendo ogni sorta di brutalità, maltrattamento, abuso, sopraffazione, come ogni giorno le cronache ci riferiscono. E allora è bene che le donne ricordino che possono generare i bambini, ma non ri-generare gli adulti, ormai solidificati e direi anche pietrificati nella loro identità. L’amore, è vero, è una potenza che può trasformare gli uomini. Ma non i narcisisti, che sono tali proprio perché, oltre a se stessi, non sanno amare nessun altro. Lo stesso Freud riteneva che non ci fosse cura per loro, per il semplice fatto che, incapaci di una relazione con l’altro da sé, non sono in grado di instaurare una relazione emotiva neppure con il loro terapeuta. Eppure incontrare un narcisista e innamorarsi di lui non è del tutto inutile, perché la sofferenza che si accumula in questa relazione può indurre la donna, se saggia, a ridurre il suo vissuto di onnipotenza ed evitare così l’autoinganno che le fa credere che, insistendo, possa cambiare le cose. Capisco che l’idea di riuscire a cambiare le cose costituisce per la donna a sua volta una gratificazione narcisistica, ma siccome il tentativo non approda, è inutile sprecare la propria esistenza per gratificazioni narcisistiche che comunque non arrivano. E allora la conclusione è quella indicata dalla psicoterapeuta che ha scritto questa lettera, ove si lascia intendere che amore non è solo conoscenza dell’altro, ma innanzitutto conoscenza di sé, nelle regioni, mai frequentate, dove veniamo a trovarci quando ci innamoriamo. Nello scenario tutto nuovo che amore dischiude possiamo conoscere, oltre alle nostre virtù che prima ignoravamo, anche i nostri limiti che nessun desiderio, neanche il più spasmodico, può superare. E il primo limite che dobbiamo riconoscere è quello della onnipotenza che la follia d’amore alimenta in noi, lasciando il narcisista, che non sa amare, nella più assoluta indifferenza.