venerdì 6 marzo 2015

IL CIELO IN UNA STANZA

isolamento come difesa, solitudine come ascolto di sé,
autoritratto come autoindagine, ARTE COME CURA

Mettiamo una ragazza di 27 anni.
Mettiamo un paese dove la guerra non lascia tregua.
Dove il quotidiano tende i nervi come corde di violino, per i bombardamenti, le uccisioni, le violenze, le restrizioni, l'angoscia, il terrore, l'incertezza.
Dove, come direbbe Ungaretti, "si sta come d'autunno sugli alberi le foglie".
E ad un certo punto qualcosa si spezza e non si regge più. E' come uno strappo.

O un'implosione.
Gli stimoli e le situazioni sono scatenanti, il livello d'ansia è ai massimi termini, l'angoscia cresce, incontenibile. Tutto è buio, senza speranza, talmente cupo da condurre a pensieri suicidi.


Ma.
C'è un Ma.
Questa ragazza ha le sue risorse. Umane, psichiche.
E fa appello a queste. Con tutta la sua forza e la sua disperazione.
Tra le sue risorse c'è anche una creatività spiccata.
Lei è una giovane artista.

Si chiama Nidaa Badwan. E' palestinese. Vive a Gaza.

L'ennesimo episodio di violenza e tensione la porta ad allontanarsi dal mondo.

Nidaa si isola, trasforma la sua stanza di neppure dieci metri quadrati nel suo rifugio.
Si isola, in questo spazio illuminato da una sola finestra e da una lampadina nuda.
Per quasi un anno.

Una stanza con una parete verde e con un'altra interamente rivestita da un patchwork di cartoni per le uova colorati.
Pochi arredi e una macchina da cucire d'epoca, un ferro da stiro, due cavalletti, una grande scala gialla e una piccola bombola a gas su cui poter preparare un cappuccino.


E la sua inseparabile macchina fotografica: una Canon EOS 600D.


Wissam Nassar for The New York Times
Nel corso dei primi due mesi Nidaa fatica a dormire, nonostante le pillole.
Fatica a sorseggiare anche la minestra che sua sorella le porta regolarmente.
Vorrebbe soltanto morire.

E poi...

"Lentamente, lentamente, iniziai ad amare l'isolamento - spiega in un'intervista al New York Times - Non era una malattia, ma un modo per guarirmi".


C'era quella luce che entrava dalla finestra e c'era la sua macchina fotografica.
Inizia così, a scattare. Scatti su scatti che divengono autoritratti.
Scatti che consentono di auto-osservarsi. Di ri-conoscersi.


L'oggetto dell'autoritratto è anche autore, soggetto, spettatore.
E l'autoritratto è una delle più potenti vie per indagare se stessi.

Uno dei più potenti canali per esprimere affetti, conflitti, desideri.
Per distanziarsene, osservandoli. Per osservarli, distanziandosene.
Auto-ritrarsi per regalarsi uno sguardo. Per scoprire aspetti di sé.
Per giocare con le molteplici identità e per giungere ad auto-identificarsi.

Perché ogni autoritratto, pensato, immaginato, realizzato, osservato, non fa che rievocare le tappe della formazione dell'Io, con le relative inquietudini circa la necessità/difficoltà a definire la propria identità, ma allo stesso tempo diviene possibilità di rielaborazione di queste inquietudini e angosce. Si fa catarsi, tras-formazione.

Lo sa molto bene anche l'artista e fotografa Cristina Nuñez che ha fatto dell'autoritratto fotografico quasi una missione, tenendo 2.700 sessioni di autoritratto in tutto il mondo.
Lo sanno bene gli arteterapeuti e l'hanno sperimentato gli innumerevoli artisti di cui è testimone la storia dell'arte.
E come afferma Stefano Ferrari nel suo saggio Lo specchio dell'Io

"La costruzione del proprio io, a cui l'autoritratto allude, non cessa con la fase dello specchio. (...) ogni incontro, ogni evento di qualche rilievo, ogni conquista o sconfitta, ogni scelta importante rimette in discussione il nostro senso d'identità, in maniera tale che il nostro Io e l'immagine che lo rappresenta devono venire, per così dire, riaggiornati e riprogrammati. Non a caso, il bisogno di farsi ritrarre è spesso correlato a momenti più o meno cruciali della vita di un uomo".

Ma, come sempre, l'artista ha bisogno di testimoni.
Ad un certo punto il suo solo sguardo non è più sufficiente ed è necessario lo sguardo dell'altro.

E per Nidaa questo è comunque un modo per riaffacciarsi sul mondo, seppur con cautela.

Gli scatti di Nidaa Badwan diventano una storia, un progetto.

Poi una mostra: "100 Days of Solitude".
Cento giorni, in omaggio a Garcia Marquez. 
La mostra si è appena conclusa, al Hoash Palestinian Art Court a Gerusalemme.

Ecco alcuni degli scatti, anzi, degli auto-scatti:















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